La magica alchimia di “We Are the World”: il backstage di Bob Dylan
Il documentario “We Are the World: la notte che ha cambiato il pop”, recentemente uscito su Netflix, ha svelato molti retroscena di una delle più celebri registrazioni della storia della musica pop. Nonostante le molteplici analogie con la sessione di registrazione del 1985, è una scena particolare a catturare l’attenzione: quella di Bob Dylan, leggenda della musica, alle prese con una performance che sembra metterlo a disagio.
Dylan, icona di un’epoca e trasformista del rock, si trova di fronte ad un microfono in un momento di evidente difficoltà. La stanza è gremita di star del calibro di Lionel Richie e Bruce Springsteen, e l’atmosfera è elettrica. Il produttore Quincy Jones gestisce i talenti, ma quando arriva il turno di Dylan, l’immagine del genio infallibile vacilla. La voce fuori campo incoraggia: “Ce la puoi fare”, ma Dylan appare incerto, le sue parole sono farfugliate, la melodia incerta.
Quincy Jones: il psicologo dei grandi artisti
L’intervento di Quincy Jones è decisivo. Il produttore propone a Dylan di esplorare nuove tonalità, trasformando la potenziale imperfezione in virtuosismo. La scena si trasforma in un insegnamento: anche i più grandi possono incontrare ostacoli, ma è il superamento di questi che può portare a risultati straordinari. La musica, come si evince, non è una ciencia rigida, ma un insieme di personalità e talenti che si esprimono in modi a volte “sbagliati”, ma autentici.
Dylan, dopo un duetto al pianoforte con Stevie Wonder che ne imita lo stile, trova finalmente la sua via. L’escamotage funziona e il cantautore sorride, padroneggiando la sua parte. La scena culmina con la sua performance, un momento di autenticità che svela il lato umano di un gigante della musica.
Una serata storica nel panorama pop
La pellicola, diretta da Bad Nguyen, non si limita a raccontare questo episodio, ma si immerge nelle dinamiche di una serata storica, che ha visto convergere un eccezionale star power americano. L’occasione fu data dagli American Music Awards del 28 gennaio 1985, evento che permise la raccolta di tanti artisti celebri in una sola città, pronto per convergere verso lo studio di registrazione A&M dopo la cerimonia.
Il documentario, narrato da Lionel Richie, svela aneddoti e curiosità, come il foglietto appeso alla porta dello studio da Quincy Jones, con l’avvertimento “Check your ego at the door”. Una richiesta simbolica, ma necessaria, per far sì che la canzone vedesse la luce in mezzo a così tanto carisma e talento concentrato.
La genesi di una canzone simbolo
La genesi di “We Are the World” inizia ben prima di quella serata, con Lionel Richie e Michael Jackson che compongono il brano tra aneddoti di animali domestici insoliti e tentativi di creare qualcosa di semplice ma efficace. La canzone, destinata a diventare un inno di solidarietà, nasce dall’intento di artisti neri di aiutare altre popolazioni africane, ribaltando la narrativa di Band Aid.
Il film documentario non si sofferma solamente sui momenti gloriosi, ma anche su piccoli contrattempi come le peripezie di Cyndi Lauper o il rifiuto di Prince di registrare in presenza degli altri artisti. Tuttavia, non mancano momenti di pura magia, come la performance spontanea in omaggio a Harry Belafonte o la commozione di Diana Ross alla fine della sessione.
Un evento che trascende il tempo
“We Are the World” non solo ha raccolto fondi per una causa nobile, ma ha anche rafforzato l’idea che il gesto di unire le forze per il bene comune può avere un impatto significativo. Il documentario celebra questo spirito di collaborazione e unità, pur non esplorando il destino dei fondi raccolti o le controversie legate all’autocelebrazione delle star.
La scena finale, con Dylan che canta la sua parte, è un tributo alla perseveranza e all’umanità degli artisti. Nonostante la sua insoddisfazione personale, il gesto viene accolto con entusiasmo da Richie e Jones. La risposta di Dylan, “Se lo dici tu…”, è un umile accettazione della situazione e, forse, una tacita ammissione del potere delle star non solo di salvare se stesse, ma di ispirare al salvataggio collettivo.