PARIGI — Professor Kepel, uno dei maggiori esperti mondiali di Medio Oriente, ha appena pubblicato in Francia il libro ‘Olocausti’ su Israele, Gaza e ‘la guerra contro l’Occidente’ che uscirà in Italia dopo l’estate per Feltrinelli, e ha insegnato per trent’anni a Sciences Po. Che cosa pensa di quello che sta accadendo alla scuola delle élite, non solo francesi?
“È il crollo di un’istituzione fondamentale, che ha capitolato di fronte all’ideologia woke e ha rinunciato alla trasmissione del sapere. Un declino cominciato purtroppo molti anni fa, quando l’allora direttore Richard Descoings, poi scomparso a New York in circostanze poco chiare, ebbe l’idea, in teoria ottima, di aprire Sciences Po a studenti venuti dalla periferia, dalle banlieue, estranei ai soliti quartieri parigini”.
Democratizzazione e calo di qualità
Lei era contrario a questa apertura?
“No, anzi, Descoings mi associò alla sua iniziativa e a me pareva una cosa positiva, sono andato io stesso nei licei di periferia a insegnare e a preparare i ragazzi al concorso d’ingresso”.
E allora che cosa non ha funzionato?
“Democratizzare l’accesso era giusto, ma non si è fatta abbastanza attenzione a mantenere alto il livello degli studenti, e anche della direzione. Dopo la morte tragica di Descoings, alla testa di Sciences Po si sono succeduti due alti funzionari venuti dall’Ena, non due professori. Si è puntato tutto sulla democratizzazione e sulla internazionalizzazione della scuola, il che poteva andare bene, ma si è trascurato il sapere, cioè la ragion d’essere profonda di una istituzione di alto livello come Sciences Po”.
Influenza delle proteste americane
Come si collega questo problema specifico di Sciences Po alle proteste nei campus americani?
“Lo si vede bene nel comunicato con il quale una settimana fa l’attuale amministratore provvisorio di Sciences Po ha annunciato la tenuta di un town hall, ovvero un incontro tra direzione e studenti, facendo un copia incolla dal gergo dei campus americani. Sciences Po è in preda alla propaganda della France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon, che vede nel 7 ottobre una re-definizione degli equilibri globali. In questo senso il 7 ottobre è peggiore dell’11 settembre”.
Perché?
“Perché dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 l’Occidente reagì compatto, il Corriere della Sera e Le Monde scrissero in prima pagina ‘siamo tutti americani’. Dopo le atrocità del 7 ottobre invece una parte almeno dell’Occidente si schiera con i carnefici e non con le vittime, come fanno gli studenti che non fanno tante distinzioni su Hamas e palestinesi. Quando vedo che la guida suprema iraniana Khamenei applaude alle proteste di Parigi, penso che abbiamo toccato il fondo”.
Il diritto di protesta e la memoria
I manifestanti pro-Palestina lamentano che la loro protesta viene criminalizzata. Non è lecito denunciare le migliaia di civili palestinesi uccisi dalle scelte del premier israeliano Netanyahu?
“Certamente. Quando però vengono totalmente dimenticati il massacro del 7 ottobre e il fatto che ci sono ancora oltre 100 ostaggi nelle mani di Hamas, allora la protesta diventa meno basata sui fatti e più sull’ideologia. Qualche giorno fa davanti a Sciences Po si sono affrontati manifestanti pro-Israele e manifestanti pro-Palestina, l’anfiteatro Boutmy dove ho tenuto tante lezioni è stato ribattezzato anfiteatro Gaza: è il contrario di quello che dovrebbe accadere in un’istituzione universitaria, fatta per la messa a confronto argomentata di tutte le posizioni”.
Il pericolo del ‘jihadismo d’atmosfera’
In un precedente libro lei ha parlato di «jihadismo d’atmosfera». Lo vede all’opera in questi giorni?
“Non ci sono violenze, almeno per il momento, per fortuna. Ma questo clima, alimentato per anni dai Fratelli musulmani, ha favorito le uccisioni dei professori Samuel Paty e Dominique Bernard. Spero che qualcuno non ne approfitti tornando a collegare Olimpiadi e causa palestinese, come accadde nel 1972 a Monaco”.