Gaza, la tregua sembra un miraggio: ostacoli e pressioni internazionali
GERUSALEMME — Da dodici anni l’emiro del Qatar ospita i leader di Hamas, ma il mese scorso li ha avvertiti di prepararsi al trasloco. È stato Antony Blinken, segretario di Stato americano, a trasmettere il messaggio al premier Mohammed bin Abdulrahman Al Thani, dopo una richiesta analogica avanzata nel 2012 dagli Stati Uniti. L’obiettivo era mantenere un canale di comunicazione aperto con il gruppo che domina Gaza dal 2007, quando prese il controllo con le armi dal presidente Abu Mazen.
Ora Blinken sta esercitando tutte le pressioni possibili, incluso lo sfratto, affinché Hamas accetti l’ultima proposta di tregua discussa dai negoziatori in Egitto. Ha chiarito al Qatar che una risposta negativa non è accettabile. Secondo i media sauditi, i jihadisti sono disposti a procedere con il piano per una pausa nei combattimenti, suddiviso in tre fasi. Durante la prima fase, lunga sei settimane, verrebbero rilasciati 33 ostaggi israeliani, tra cui donne, minori, anziani e malati.
Scambi di prigionieri e negoziati complessi
Nei passaggi successivi, i soldati e gli uomini con meno di 50 anni verrebbero scambiati con altri detenuti palestinesi. Fonti saudite riferiscono che Israele sarebbe disposto a liberare Marwan Barghouti, condannato a cinque ergastoli, a patto che si trasferisca a Gaza, anche se è originario della Cisgiordania, dove vive la sua famiglia. Molti palestinesi, diplomatici internazionali e alcuni israeliani lo considerano il possibile successore dell’anziano raìs.
I rappresentanti di Hamas sono al Cairo, mentre Benjamin Netanyahu ha rinviato la partenza della delegazione guidata dal direttore del Mossad. Il primo ministro ha lasciato trapelare due messaggi per ridurre le aspettative sui negoziati: una «fonte politica di alto livello» ha ribadito che l’esercito invaderà Rafah; la stessa fonte ha spiegato che per Israele non è possibile aderire a un cessate il fuoco permanente. I leader di Hamas affermano invece di aver ricevuto garanzie sulla fine del conflitto e sul ritiro delle truppe dalla Striscia.
Pressioni interne ed esterne
Tzahi Hanegbi, consigliere per la Sicurezza Nazionale e fedelissimo di Netanyahu, ha dichiarato ai telegiornali che le truppe entreranno a Rafah «molto presto» e che Yahya Sinwar, il responsabile dei massacri del 7 ottobre, «non resterà vivo». Si dice che Sinwar abbia l’ultima parola sull’accordo e il Canale 12 israeliano specula che i segnali «positivi» potrebbero essere solo una tattica per guadagnare tempo.
Intanto, i famigliari degli ostaggi sono sempre più preoccupati. Ieri sera migliaia di persone sono scese in strada a Tel Aviv per chiedere che l’accordo venga finalizzato e per invocare le dimissioni del governo. Dopo la pausa nei combattimenti dello scorso novembre, 133 ostaggi sono ancora prigionieri dei terroristi, di cui una trentina dichiarati morti dall’intelligence israeliana.
La crisi umanitaria di Gaza
La situazione per gli abitanti di Gaza è disperata. «La carestia è imminente ed è già in corso nel nord della Striscia» ha denunciato Cindy McCain, direttrice del Programma Alimentare Mondiale. Gli Stati Uniti hanno sospeso la costruzione del porto flottante al largo della Striscia a causa delle avverse condizioni del mare. Questo porto avrebbe permesso un afflusso maggiore di aiuti nella parte del territorio più colpita dalla fame.
I palestinesi uccisi in 211 giorni di guerra sono quasi 35 mila. Le condizioni di vita a Gaza sono drammatiche, con la popolazione civile che soffre a causa delle mancate forniture di beni di prima necessità e delle continue tensioni militari.
La comunità internazionale continua a monitorare la situazione, sperando in una risoluzione pacifica che sembra sempre più difficile da raggiungere.