La stabilità dei governi italiani e il ruolo del presidente del Consiglio
Quasi sempre i governi italiani finiscono per implosione delle coalizioni parlamentari che li hanno visti nascere. È come se, fin dall’inizio, ogni governo recasse al suo interno una mina a scoppio più o meno ritardato. La riforma in cantiere vuole stabilizzare il premier anche contro il «fuoco amico». Ed è un intento assolutamente giusto. L’Italia non può più permettersi la precarietà di chi — per Costituzione — deve «dirigere» il programma di governo e mantenere «l’unità di indirizzo politico e amministrativo» dell’intera squadra. Il che vuol dire, in termini politici, essere di guida all’intera coalizione. Il presidente del Consiglio non è infatti un «primo tra eguali», un mediatore, o quasi un «portavoce» della coalizione: come per tanto tempo, per malinteso amore di collegialità, si è predicato.
Per gradi successivi — dal risultato elettorale alla stessa «motivazione» della sua investitura parlamentare — è piuttosto il titolare ultimo dell’indirizzo politico nazionale: con un inevitabile grado di personalizzazione, da Palazzo Chigi a Bruxelles (e non un «pezzo» da potersi meccanicamente sostituire con uno di ricambio). Soprattutto, però, il «presidente del governo» è un leader parlamentare, sempre più parte attiva della funzione legislativa e dei cruciali orientamenti politici: facendo della coalizione una forza e non un freno.
La questione della supremazia e la legittimazione parlamentare
La grande distorsione del progetto che si discute al Senato è precisamente nel far discendere questa supremazia da una legittimazione extra-parlamentare. Questa retrocessione del Parlamento, ridotto «a bagaglio presso» dell’elezione diretta, è scelta lacerante del tessuto profondo della Costituzione. E sembra rivolta al peggiore passato: come nelle crisi extraparlamentari, che hanno costituito la causa più frequente di caduta dei governi, il fondamentale rapporto governo-parlamento è deciso fuori dalle Camere. Cioè in senso esattamente contrario alla direzione costituzionalmente obbligata: che riconduce tutto, nascita e morte delle coalizioni governative, in parlamento. La preminenza del presidente del Consiglio, per conseguire il bene della stabilità, con riforme che non escano da quel binario, deve invece acquistare, e non perdere, qualità parlamentare.
La elezione, separata, del «presidente del governo» da parte delle Camere riunite sarebbe un radicamento forte. E lo «sminamento» delle minacce interne andrebbe ugualmente centrato in parlamento: costringendo chi vuole disfare la coalizione e buttare giù il governo, ad assumersene la responsabilità. Il che significa indicare una nuova coalizione sostitutiva nello stesso momento in cui si rompe quella esistente. È la «sfiducia costruttiva», appunto. Ma vi è, nelle preoccupazioni del nostro tempo, un altro — e decisivo — elemento perché la prevalenza della volontà parlamentare sia l’unica risorsa contro i pericoli di degenerazione dei governi.
Nelle attuali condizioni sociali in cui è accertata la facilità tecnica di manipolazione del corpo elettorale, con possibilità di falsificazione persino di immagini e di linguaggi personali, qualsiasi scelta parlamentare è preferibile alla scelta popolare diretta. La lungimiranza del primo articolo della Costituzione nell’indicare i «limiti» alla «sovranità» popolare si dimostra oggi nella sua pienezza. Di fronte ad un «mondo guasto» per la banalità del male: apparentemente inarrestabile nell’invasione di menzogne di massa — e nella impunità di chi ha questa signoria di inquinare — l’unico rifugio è nella intermediazione politica, nei filtri, nel contraddittorio per verificare la verità dei fatti, nell’equilibrio delle coalizioni. In tutto quello cioè che anche un Parlamento, sbilenco e da aggiustare come il nostro, può tuttavia, per il fatto stesso di esserci, assicurare: meglio di una elezione diretta a «mosca cieca».