Israele inizia la terza fase del conflitto: ritiri strategici e tensioni con l’Iran
In un contesto di crescente tensione nel Medio Oriente, Israele ha annunciato il ritiro parziale delle sue truppe dalla zona di Khan Yunis, nel sud della Striscia di Gaza, segnando così la fine della seconda fase delle ostilità e l’apertura di un nuovo capitolo nel conflitto che lo vede opposto a Hamas. Questo movimento di truppe, interpretato dalle fonti dell’esercito israeliano come l’inizio della terza fase della guerra, prevede raid mirati e non preclude future azioni a Rafah, dove si sono rifugiati circa un milione di sfollati.
Il ritiro, tuttavia, non è un segnale di debolezza. Al contrario, secondo il portavoce sulla Sicurezza nazionale degli Stati Uniti, John Kirby, potrebbe indicare una strategia per dare ‘un periodo di riposo’ alle truppe impegnate da mesi sul campo. La mossa è stata inoltre interpretata come un tentativo di allentare la pressione internazionale e americana sul governo di Netanyahu, accusato per il numero elevato di vittime civili e per gli ‘errori’ che hanno portato all’uccisione di operatori umanitari.
La pressione internazionale e le proteste interne
La decisione israeliana arriva in un momento di forte tensione internazionale e di crescenti proteste interne. Circa 100mila persone hanno manifestato a Tel Aviv, chiedendo il ritorno degli ostaggi e la convocazione di elezioni anticipate. In questo contesto, il ministro della Difesa Yoav Gallant ha dichiarato che Israele è pronto ad affrontare qualsiasi scenario, incluso un potenziale conflitto con l’Iran, che ha minacciato ritorsioni dopo l’eliminazione a Damasco dei vertici delle forze Al Quds dei pasdaran.
Nonostante le minacce iraniane, esperti come Edward Luttwak sostengono che l’Iran ‘non ha la capacità militare’ per sferrare attacchi significativi contro Israele. La strategia israeliana sembra quindi orientata a colpire obiettivi precisi, evitando il rischio di vittime civili che hanno finora gravato pesantemente sul bilancio politico e morale del governo di Netanyahu.
La questione Hamas e il futuro politico di Gaza
Il dibattito si concentra ora sulla capacità di Israele di aver eliminato l’80% del personale di Hamas e sulla necessità di distruggere completamente l’organizzazione per permettere l’instaurazione di un governo retto dall’Autorità Palestinese e da Fatah. Questa prospettiva sembra trovare consenso anche in Egitto, preoccupato per l’anarchia potenziale a Gaza. Tuttavia, la permanenza di Netanyahu al governo appare sempre più incerta: l’istituzione di una commissione post-conflitto potrebbe forzarlo alle dimissioni entro 90 giorni, aprendo la strada a profondi cambiamenti nella politica interna israeliana.
La situazione in Israele è quindi al bivio: da un lato, la necessità di rispondere militarmente alle minacce di Hamas e, dall’altro, l’urgenza di risolvere una crisi politica interna che rischia di paralizzare il paese. La mossa di ritirare parzialmente le truppe da Gaza, pur mantenendo una presenza strategica, è un chiaro segnale della complessità della situazione in cui si trova Israele, costretto a bilanciare l’imperativo della sicurezza nazionale con le pressioni internazionali e le esigenze della sua popolazione.
Il futuro del conflitto e del governo di Netanyahu rimane incerto, con la comunità internazionale e la popolazione israeliana che attendono sviluppi significativi. La speranza è che le mosse strategiche e i cambiamenti politici possano portare a una soluzione duratura del conflitto, garantendo sicurezza e stabilità nella regione.